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Alessandro Gogna - Le Apuane viste da un alpinista?

Intervento al Convegno Nazionale Alpi Apuane Patrimonio - Organizzato da ReTe dei comitati, Cai e Salviamo le Apuane - Firenze, 8 novembre 2014 

È vero, sono stato e sono un alpinista: e potrei intrattenervi per ore sulla bellezza delle Alpi Apuane, proprio nei confronti con le altre Alpi, alle quali non hanno nulla da invidiare.

Potrei raccontare ore, giorni, settimane passate in quelle valli, su quelle pareti e sulle cime. In contemplazione oppure nell’azione di una salita difficile.

Potrei dire anch’io come mi sono incantato di fronte a fiori che ci sono solo lì e non altrove, oppure di fronte a un’orografia che, già sconvolta di suo, in più punti è diventata dantesca per mano dell’uomo.

Ma io so che molti di voi sono qui perché come me amano le Apuane, dunque la mia testimonianza va a fecondare campi già fertili. Preferisco dare per scontate quelle emozioni che sicuramente la maggior parte di voi ha vissuto esattamente come me.

Vi voglio solamente raccontare una piccola avventura, le emozioni vissute nella quale di sicuro non spartisco con nessuno…

Circa una ventina di anni fa mi trovai a salire da solo la parete sud del Monte Altissimo, per una via difficile di Angelo Nerli e compagni. C’erano alcuni passaggi dove la prudenza voleva che salissi autoassicurato, così avevo con me la corda, l’imbragatura e i moschettoni. Risolsi abbastanza velocemente la via, in cima il panorama era grandioso ma un po’ cupo per via del cielo nuvoloso. Decisi di non scendere verso il Passo degli Uncini perché mi ero incuriosito a leggere di uno strano percorso che già la guida di Angelo Nerli sconsigliava già nel 1979 per via delle cattive condizioni in cui versava: il percorso dei “Tavoloni”.

Scesi così al Passo di Vaso Tondo, poi per un sentierino veramente esposto, per lo più intagliato nella roccia viva, scesi alla grandiosa Cava della Tacca Bianca, completamente abbandonata, caratterizzata da un antro artificiale gigantesco. Questa cava è a picco su una parete verticale che precipita al di sotto per almeno 3-400 metri, un luogo che, per la sua solitudine e per le reminiscenze michelangiolesche, mi mise i brividi.

Sulla destra ci sono ancora dei macchinari che servivano per calare a valle il marmo tagliato, una toilette anche questa intagliata nella parete così come un piccolo altarino.

Andai in esplorazione a vedere come era il percorso dei Tavoloni, quello che avrebbe dovuto portarmi alla Cava dei Colonnoni: vidi una serie di putrelle di ferro infilzate nel marmo che in origine supportavano delle tavole in legno e che ne permettevano la percorrenza da parte dei cavatori. Qua e là qualche brandello di tavola marcita era ancora lì a testimonianza. Nessun segno di ringhiera esterna.

I pali erano lunghi tipo un metro e mezzo, ed erano distanziati tra loro fino a due metri. Decisamente impercorribile.

Ma l’idea di tornare al Vaso Tondo e poi ancora in vetta all’Altissimo non mi andava a genio, così decisi di percorrere i Tavoloni autoassicurandomi a due anelli di corda che avevo con me. Assicurato al primo mi sporgevo nel vuoto per afferrare la putrella successiva, passarvi attorno il secondo cordone, quindi tornare indietro per recuperare il primo. Una fatica bestiale, perché il percorso è lungo sui 400 metri, quindi dovetti ripetere la stessa manovra per 200 volte circa, in qualche caso con grosse difficoltà, costantemente esposto a un vuoto come raramente avevo provato. E in più c’era l’incubo della possibilità che una putrella mancasse, quindi fossi costretto a tornare indietro!

Alla fine arrivai, sfinito.

Mentre tornavo alla mia automobile, mi ripromettevo che avrei fatto di tutto perché quell’espostissimo camminamento un giorno venisse recuperato, per fare del versante sud del Monte Altissimo un parco di archeologia marmifera.

Ora, con ricordi di questo genere, è chiaro che condivido e propugno ogni discorso a carattere ambientalista. Ma vorrei mi permetteste di andare un poco oltre, vista l’eccezionalità di questo caso, un gruppo di montagne in via di estinzione.

Qualunque fenomeno naturale stravolga una geografia ci disturba. Al di là dei danni economici per le catastrofi, una frana, un terremoto sono eventi che ci scuotono nell’intimo.

Se poi il fenomeno non è naturale (e quindi a esempio una serie di cave più o meno selvagge), ci disturba ancora di più. L’intensità di questo disturbo è tanto più forte quanto più ci ostiniamo a dare un significato di eternità a ciò che eterno non è mai stato.

La nostra epoca immersa nel virtuale (che è espressione del massimo della volubilità e quindi deperibilità) tende stranamente a negare il valore di ciò che è caduco, illudendoci (in un limbo di preteso e immutabile ottimismo) che la nostra esistenza matematico-informatica e le nostre sicurezze di vita sana e felice siano in costante crescita, quasi tendenti all’infinito.

Qualunque fenomeno contrario ci sbatte con evidenza in faccia la realtà, ci disturba, ma forse è anche un’occasione per crescere. E direi che nel caso delle Apuane l’occasione per crescere è davvero enorme e non possiamo lasciarcela sfuggire.

La grandezza della montagna (e quindi dell’universo) non è nella sua pretesa eternità, è nell’accettazione della sua “vita” e quindi prima o poi della sua morte. Già Roderick Nash, professore di storia e studi ambientali all’università di Santa Barbara (California), nel 1975 aveva sostenuto, in uno splendido articolo, per certi versi illuminato, i “diritti delle rocce”: in esso dimostrava come l’evoluzione dell'Etica, partendo dall’unità individuale si allargasse alla famiglia e alla tribù. In seguito il rispetto etico si estese alla nazione, alla razza, all’umanità (Cristo, Buddha), per arrivare poi in tempi più moderni ai mammiferi, quindi agli altri animali, poi alle piante. Il prossimo passo etico è l’ammissione dell’inorganico, cioè la terra e le rocce, l’acqua e l’ambiente in generale.

Come è distante a questo punto il concetto di “montagna eterna”. In ambito etico la “montagna eterna” è solo un concetto, dunque non dovremmo più soffrire per le mutilazioni e gli stravolgimenti. La montagna viva è l’unica esperienza possibile.

Ma il non soffrire più per le vicende dell’ambiente e il sapere che non c’è nulla di eterno non giustificano il nostro essere inattivi di fronte alle aggressioni; al contrario la nostra azione a salvaguardia deve continuare con più forza di prima, perché la caducità è l’unico mezzo che abbiamo per aspirare a qualcosa di davvero eterno.

Carlo Alberto Pinelli una volta scrisse: «Nessun reale sforzo per cambiare rotta verrà mai tentato se, a fianco degli spettri agitati con fin troppo buon senso dalla scienza ecologica, non verrà innalzato il vessillo dell'amicizia disinteressata e inutile con la Natura. Noi combatteremmo contro la rapina delle risorse naturali anche se, per ipotesi, le risorse del pianeta fossero infinite; combatteremmo contro la distruzione delle foreste anche se la loro scomparsa non provocasse una degradazione irreversibile degli ecosistemi terrestri; combatteremmo contro gli inquinamenti delle acque, dell'aria, del suolo anche se dagli inquinamenti non fosse minacciata la nostra salute fisica e il nostro benessere materiale. E combatteremmo semplicemente perché boschi, ambienti naturali, animali selvatici, acque limpide e così via, hanno dato e danno alla nostra vita un senso al quale non siamo disposti a rinunciare».

 

La consapevolezza della non eternità, la nostra finitezza ci danno la forza per continuare la nostra lotta. Il mio intervento non si propone di individuare le alternative sociali, ambientali e turistiche all’escavazione. Altri lo fanno e faranno molto meglio di me.

Ma perché gli abitanti delle Dolomiti, che nell’Ottocento vivevano in condizioni assai misere ed erano costretti a emigrare, oggi hanno trovato un decoroso modello di vita tramite il turismo? Perché non si può fare anche qui la stessa cosa? Il mondo sarebbe disposto a vedere distrutti dalle cave la Marmolada, il Sassolungo o le Tre Cime di Lavaredo?

Dobbiamo semplicemente “crederci”, crederci sempre di più, usare per altri scopi più nobili quella potente energia che ci ha fatto conoscere, scalare, colonizzare e sfruttare.

Proprio nei momenti difficili l’uomo si risveglia, di fronte a un disastro si fanno investimenti e piani Marshall in altri tempi difficilmente concepibili. L’italiano deve incominciare ad amare il proprio territorio, solo dopo questo passaggio culturale le risorse economiche salteranno fuori. È questo il momento delle Apuane.

Alessandro Gogna

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Location. Alpi Apuane
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