Salviamo il Piano del Parco delle Alpi Apuane

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Il tempo stringe per le Alpi Apuane


 
Il tempo stringe per le Alpi Apuane
 
 
 

La raccolta firme per i luoghi del cuore del Fai chiude ufficialmente il 30 Novembre, fin qui molte persone si sono attivate per la raccolta, ma dobbiamo fare di più. Tra i luoghi del Cuore anche le Alpi Apuane degnamente rappresentate dal Pizzo D'Uccello, montagna nota per la sua bellissima parete nord. 

Ricorda che il tempo stinge per le Alpi Apuane ti chiediamo pertanto di impegnarti con noi in questo periodo di chiusura votazioni ecco come:

Vota e fai votare online a questo link http://iluoghidelcuore.it/luoghi/16679

Presta i tuoi profili social condividendo il link sopra con un messagio che inciti a votare per le Alpi Apuane

Infine ma non da meno ricordati di far girare questa mail nel tuo indirizzario email, se questo messaggio diventa virale sarà un grande contributo per le Alpi Apuane

Se vuoi saperne di più visita il sito www.salviamoleapuane.org
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www.salviamoleapuane.org

Alessandro Gogna - Le Apuane viste da un alpinista?

Intervento al Convegno Nazionale Alpi Apuane Patrimonio - Organizzato da ReTe dei comitati, Cai e Salviamo le Apuane - Firenze, 8 novembre 2014 

È vero, sono stato e sono un alpinista: e potrei intrattenervi per ore sulla bellezza delle Alpi Apuane, proprio nei confronti con le altre Alpi, alle quali non hanno nulla da invidiare.

Potrei raccontare ore, giorni, settimane passate in quelle valli, su quelle pareti e sulle cime. In contemplazione oppure nell’azione di una salita difficile.

Potrei dire anch’io come mi sono incantato di fronte a fiori che ci sono solo lì e non altrove, oppure di fronte a un’orografia che, già sconvolta di suo, in più punti è diventata dantesca per mano dell’uomo.

Ma io so che molti di voi sono qui perché come me amano le Apuane, dunque la mia testimonianza va a fecondare campi già fertili. Preferisco dare per scontate quelle emozioni che sicuramente la maggior parte di voi ha vissuto esattamente come me.

Vi voglio solamente raccontare una piccola avventura, le emozioni vissute nella quale di sicuro non spartisco con nessuno…

Circa una ventina di anni fa mi trovai a salire da solo la parete sud del Monte Altissimo, per una via difficile di Angelo Nerli e compagni. C’erano alcuni passaggi dove la prudenza voleva che salissi autoassicurato, così avevo con me la corda, l’imbragatura e i moschettoni. Risolsi abbastanza velocemente la via, in cima il panorama era grandioso ma un po’ cupo per via del cielo nuvoloso. Decisi di non scendere verso il Passo degli Uncini perché mi ero incuriosito a leggere di uno strano percorso che già la guida di Angelo Nerli sconsigliava già nel 1979 per via delle cattive condizioni in cui versava: il percorso dei “Tavoloni”.

Scesi così al Passo di Vaso Tondo, poi per un sentierino veramente esposto, per lo più intagliato nella roccia viva, scesi alla grandiosa Cava della Tacca Bianca, completamente abbandonata, caratterizzata da un antro artificiale gigantesco. Questa cava è a picco su una parete verticale che precipita al di sotto per almeno 3-400 metri, un luogo che, per la sua solitudine e per le reminiscenze michelangiolesche, mi mise i brividi.

Sulla destra ci sono ancora dei macchinari che servivano per calare a valle il marmo tagliato, una toilette anche questa intagliata nella parete così come un piccolo altarino.

Andai in esplorazione a vedere come era il percorso dei Tavoloni, quello che avrebbe dovuto portarmi alla Cava dei Colonnoni: vidi una serie di putrelle di ferro infilzate nel marmo che in origine supportavano delle tavole in legno e che ne permettevano la percorrenza da parte dei cavatori. Qua e là qualche brandello di tavola marcita era ancora lì a testimonianza. Nessun segno di ringhiera esterna.

I pali erano lunghi tipo un metro e mezzo, ed erano distanziati tra loro fino a due metri. Decisamente impercorribile.

Ma l’idea di tornare al Vaso Tondo e poi ancora in vetta all’Altissimo non mi andava a genio, così decisi di percorrere i Tavoloni autoassicurandomi a due anelli di corda che avevo con me. Assicurato al primo mi sporgevo nel vuoto per afferrare la putrella successiva, passarvi attorno il secondo cordone, quindi tornare indietro per recuperare il primo. Una fatica bestiale, perché il percorso è lungo sui 400 metri, quindi dovetti ripetere la stessa manovra per 200 volte circa, in qualche caso con grosse difficoltà, costantemente esposto a un vuoto come raramente avevo provato. E in più c’era l’incubo della possibilità che una putrella mancasse, quindi fossi costretto a tornare indietro!

Alla fine arrivai, sfinito.

Mentre tornavo alla mia automobile, mi ripromettevo che avrei fatto di tutto perché quell’espostissimo camminamento un giorno venisse recuperato, per fare del versante sud del Monte Altissimo un parco di archeologia marmifera.

Ora, con ricordi di questo genere, è chiaro che condivido e propugno ogni discorso a carattere ambientalista. Ma vorrei mi permetteste di andare un poco oltre, vista l’eccezionalità di questo caso, un gruppo di montagne in via di estinzione.

Qualunque fenomeno naturale stravolga una geografia ci disturba. Al di là dei danni economici per le catastrofi, una frana, un terremoto sono eventi che ci scuotono nell’intimo.

Se poi il fenomeno non è naturale (e quindi a esempio una serie di cave più o meno selvagge), ci disturba ancora di più. L’intensità di questo disturbo è tanto più forte quanto più ci ostiniamo a dare un significato di eternità a ciò che eterno non è mai stato.

La nostra epoca immersa nel virtuale (che è espressione del massimo della volubilità e quindi deperibilità) tende stranamente a negare il valore di ciò che è caduco, illudendoci (in un limbo di preteso e immutabile ottimismo) che la nostra esistenza matematico-informatica e le nostre sicurezze di vita sana e felice siano in costante crescita, quasi tendenti all’infinito.

Qualunque fenomeno contrario ci sbatte con evidenza in faccia la realtà, ci disturba, ma forse è anche un’occasione per crescere. E direi che nel caso delle Apuane l’occasione per crescere è davvero enorme e non possiamo lasciarcela sfuggire.

La grandezza della montagna (e quindi dell’universo) non è nella sua pretesa eternità, è nell’accettazione della sua “vita” e quindi prima o poi della sua morte. Già Roderick Nash, professore di storia e studi ambientali all’università di Santa Barbara (California), nel 1975 aveva sostenuto, in uno splendido articolo, per certi versi illuminato, i “diritti delle rocce”: in esso dimostrava come l’evoluzione dell'Etica, partendo dall’unità individuale si allargasse alla famiglia e alla tribù. In seguito il rispetto etico si estese alla nazione, alla razza, all’umanità (Cristo, Buddha), per arrivare poi in tempi più moderni ai mammiferi, quindi agli altri animali, poi alle piante. Il prossimo passo etico è l’ammissione dell’inorganico, cioè la terra e le rocce, l’acqua e l’ambiente in generale.

Come è distante a questo punto il concetto di “montagna eterna”. In ambito etico la “montagna eterna” è solo un concetto, dunque non dovremmo più soffrire per le mutilazioni e gli stravolgimenti. La montagna viva è l’unica esperienza possibile.

Ma il non soffrire più per le vicende dell’ambiente e il sapere che non c’è nulla di eterno non giustificano il nostro essere inattivi di fronte alle aggressioni; al contrario la nostra azione a salvaguardia deve continuare con più forza di prima, perché la caducità è l’unico mezzo che abbiamo per aspirare a qualcosa di davvero eterno.

Carlo Alberto Pinelli una volta scrisse: «Nessun reale sforzo per cambiare rotta verrà mai tentato se, a fianco degli spettri agitati con fin troppo buon senso dalla scienza ecologica, non verrà innalzato il vessillo dell'amicizia disinteressata e inutile con la Natura. Noi combatteremmo contro la rapina delle risorse naturali anche se, per ipotesi, le risorse del pianeta fossero infinite; combatteremmo contro la distruzione delle foreste anche se la loro scomparsa non provocasse una degradazione irreversibile degli ecosistemi terrestri; combatteremmo contro gli inquinamenti delle acque, dell'aria, del suolo anche se dagli inquinamenti non fosse minacciata la nostra salute fisica e il nostro benessere materiale. E combatteremmo semplicemente perché boschi, ambienti naturali, animali selvatici, acque limpide e così via, hanno dato e danno alla nostra vita un senso al quale non siamo disposti a rinunciare».

 

La consapevolezza della non eternità, la nostra finitezza ci danno la forza per continuare la nostra lotta. Il mio intervento non si propone di individuare le alternative sociali, ambientali e turistiche all’escavazione. Altri lo fanno e faranno molto meglio di me.

Ma perché gli abitanti delle Dolomiti, che nell’Ottocento vivevano in condizioni assai misere ed erano costretti a emigrare, oggi hanno trovato un decoroso modello di vita tramite il turismo? Perché non si può fare anche qui la stessa cosa? Il mondo sarebbe disposto a vedere distrutti dalle cave la Marmolada, il Sassolungo o le Tre Cime di Lavaredo?

Dobbiamo semplicemente “crederci”, crederci sempre di più, usare per altri scopi più nobili quella potente energia che ci ha fatto conoscere, scalare, colonizzare e sfruttare.

Proprio nei momenti difficili l’uomo si risveglia, di fronte a un disastro si fanno investimenti e piani Marshall in altri tempi difficilmente concepibili. L’italiano deve incominciare ad amare il proprio territorio, solo dopo questo passaggio culturale le risorse economiche salteranno fuori. È questo il momento delle Apuane.

Alessandro Gogna

Intervento di Fabio Baroni al Convegno nazionale per le Alpi Apuane

Fabio Baroni

Una nota autoreferenziale. Salviamo le Apuane è un’anomalia nel contesto moderno, un gruppo virtuale che non ha corpo, capi, gerarchie e che si muove come un’antica comunità dentro uno strumento d’avanguardia, come facebook. Conta oltre 10mila iscritti.

Sarò inevitabilmente schematico, dovendo affrontare un tema vastissimo in un tempo, giustamente, minuscolo. 

Il problema Apuane sta tutto dentro l’organizzazione che l’economia e la politica dominante hanno stabilito per le montagne. Dopo la brutale, feroce affermazione del primato urbano sulla campagna (nell’ambito nel noto conflitto/contraddizione storica città/campagna) dato dall’organizzazione territoriale per province, dove una città di fondovalle dominava un vastissimo territorio detto il “suo” entroterra, con le Comunità Montane si è preso atto di una soggettività delle montagne e dei loro popoli ma non è mutata la destinazione d’uso che alle montagne è assegnata. Esse sono i luoghi di produzioni ed attività corollarie, collaterali, marginali. Plasticamente direi che le città producono i mobili e le montagne i soprammobili.

Così nel turismo, dove la parte che fa PIL, di massa è affidata alle città d’arte e alle aree balneari marittime (salvo l’eccezione –che conferma la regola- dello sci) gestite dall’industria turistica urbana. Così nell’agricoltura dove, per le montagne, è stato coniato un bel nome per una camicia di forza: prodotto tipico, che altro non è che una serie di prodotti che stanno fuori dall’alimentazione normale e quotidiana, la quale è nelle mani dell’industria agricola non montana; e dunque si producono farine di castagne, di farro, miele, marmellate di frutti di bosco, funghi e, magari, qualche presidio slow food di nicchia. Così nell’artigianato dove, appunto, si fanno i soprammobili: il legno intagliato, i cesti in vimine, le tele al telaio ma non il vestiario per le persone. Così, infine, è per il commercio che si adegua a questo quadro e, dunque, non GDO o reti di negozi ma i mercatini, le botteghe del contadino, le osterie del nonno. 

Salviamo le Apuane rompe questo schema e afferma la prima rivendicazione storica e cioè che le Apuane possono –come dimostrato nella storia- sfamare, vestire, attrezzare almeno tutta la popolazione che vive nelle montagne, grazie alla filiera corta.

Ma, nel frattempo e nel corso parallelo del processo di maturazione di quella convinzione, Salviamo le Apuane afferma l’altra rivendicazione storica e cioè che la cultura che ha retto quella capacità produttiva storica, quella autosufficienza economica (non autarchica, s’intenda) è una cultura compiuta, che chiamiamo ruralità. Cultura compiuta significa insieme di saperi, scienze e tecniche umani che permettono ad una comunità, che li ha, di rispondere a tutte le necessità della sua vita, individuale e collettiva. E la cultura contadina e montanara è compiuta perché ha risposto, per secoli, ai bisogni di alimentazione, protezione dalle intemperie e avversari, edilizia, urbanistica; così come alla politica, alla necessità di leggi e consuetudini sancite, alla medicina, fino alla risposta a bisogni immateriali, l’arte, ed al rapporto con il soprannaturale. Questa cultura compiuta, assieme a quella che chiameremo urbanità per non usare più un termine che, nel tempo, si è caricato di altri e diversi significati rispetto alla sua origine, “civiltà”, compongono –con le eccezioni che confermano le regole- l’insieme del sapere umano costruito almeno dal neolitico ad oggi.

Dunque, mentre si afferma che le Apuane sono un contesto agricolo, pastorale, artigianale, commerciale, ecc. in grado di dare lavoro e vita alle sue popolazioni, si opera perché sia caricata di nuova dignità quella cultura montanara che crea l’identità apuana: Affinché, assieme, queste due rivendicazioni storiche creino una coscienza locale che animi il protagonismo, la fiducia, l’intrapresa nella montagna, mortificate da decenni di svalutazione di fronte all’american way of life (television e frigidaire). Quel mito è ancora ben duro da soffocare nelle montagne, soprattutto fra i giovani e ciò è un problema non trascurabile.

Le Apuane, come è noto hanno due problemi strutturali, grandi come quelli del vecchio del nord cinese. Il primo è la desertificazione demografica che non è, oggi, allo stato di rischio ma è un processo in avanzato stato di realizzazione. Io ho 60 anni e, nel mio paese di 80 abitanti, sono, di fatto, fra le famiglie più giovani. Fra 20 anni lo sarò ancora, a 80 anni, e saremo ad un passo dalla desertificazione totale di quel borgo, come di tutti gli altri. L’urgenza –e la sottovalutazione colpevole di questo problema grida vendetta- è tale che esso, e non il job act, dovrebbe essere sul tavolo del governo italiano e dell’Europa.

Il secondo problema –perché tale è, un problema- è la monocoltura del marmo. Essa si presenta come un esemplare caso di colonialismo, in quella colonizzazione in house fatta dal capitalismo nazionale alla fine dell’800. Il modello è classico ed esattamente quello vissuto dagli africani, asiatici, sudamericani: alcune aziende straniere (per noi francesi, svizzere, inglesi, ecc.) che individuano un importante giacimento di materia prima, il marmo; acquistano il terreni espropriandoli alle comunità locali (le vicinanze, le comunelle, i comunali; tutti usi civici); introducono un’industria estranea che rapina la ricchezza lasciando solo briciole (gli stipendi) sul territorio assieme ai danni ambientali ed a morti e mutilati  da una lavoro pericolosissimo (oggi anche un problema idrogeologico davvero barbino) e, infine, distrugge ogni preesistente forma economica, creando problemi occupazionali di prima importanza, quando quell’attività va in crisi. Perciò, strutturalmente, per necessità, ogni colonialismo deve diffondere la novella che, quella terra, non possa vivere senza quella attività monocolturale e che, addirittura, quell’attività rappresenterebbe l’identità culturale di quella gente. Questo falso storico va rintuzzato: la monocoltura del marmo sta alle Apuane come quella del cacao/caffè, the, cotone stanno al Brasile, all’India, al sud degli Stati Uniti. Certo che hanno lasciato segni, anche nella cultura, ma nessun popolo troverebbe mai le sue “radici” in quello, come non è mai avvenuto al mondo fra i popoli nativi.

Salviamo le Apuane, dunque, afferma che è necessario che la monocoltura del marmo venga combattuta, in una sorta di lotta di liberazione da essa, che sta dentro un processo di rivoluzione culturale complesso che tiene assieme: 

1. La coscienza della potenzialità produttiva delle Apuane, come terra che può dare presente e futuro alla sua gente;

2. La coscienza che la sua cultura compiuta, la ruralità, è in grado di rispondere a tutti i problemi delle comunità locali;

3. La coscienza che la cultura della monocoltura del marmo è un fatto esterno e imposto su una cultura preesistente, distrutta e sradicata, in gran parte dall’emigrazione di massa e che, dunque, deve essere contestata e rifiutata; anche al fine di evitare che qualche intelligenza abbia la folgorazione di ritenere che, in fondo, se si attiva un’economia alternativa e sostenibile essa può andare ad affiancarsi e integrarsi con quella del marmo moltiplicando la ricchezza; non è pensabile perché, qui, c’è un’antitesi: dov’è una non è l’altra.

 

Dunque, come ci appare, lo sviluppo –nel senso dello scioglimento di viluppi- di un’economia alternativa nelle Apuane, non è solo un processo che ferma la desertificazione demografica e dà quel lavoro necessario a riconvertire l’economia di cava (chiudendole) o solo una battaglia ambientalista per salvare uno degli ecosistemi più interessanti del pianeta, ma è soprattutto la costruzione, ideale e materiale, anche spirituale (lo spirito della montagna), di riscatto di una terra; un processo che sta sul piano di quelle che altri conducono altrove, in Europa e nel Mondo.

Non mi dilungherò a parlarvi, qui, dell’economia alternativa alla monocoltura del marmo nelle Apuane: oggi, nel pomeriggio con la ReTe dei Comitati abbiamo costruito una illustrazione, da parte di vari protagonisti, titolari di aziende (come già abbiamo fatto, in questo 2014, a Lucca, a febbraio, e a Casola in Lunigiana, il 21 giugno). A quel momento rimando per avere un’idea di ciò che si sta muovendo.

Vi risponderò, però, con le stesse parole che un console, -che so?- cubano mi rivolse alla domanda che gli posi qualche anno fa, quando ci si appassionava di questo, se la rivoluzione avesse dei problemi, come andasse, ecc.; mi rispose con uno spagnolo ben diverso dal mio, orribile, la revolution a Cuba es un echo. La rivoluzione a Cuba è un fatto. Ecco: l’economia alternativa nelle Apuane è un fatto e non una desiderio, un programma, un processo, un progetto, una sperimentazione. Essa nasce dalla coincidente azione di tanti privati che hanno fatto una scelta o sono stati costretti da una situazione o hanno avuto tante altre motivazioni per individuare quella come loro attività lavorativa; essi stanno in un ventaglio che va dal considerare quel lavoro come una qualsiasi altra occupazione, assunta solo per crearsi una fonte di reddito fino alla coscienza di scegliere quel lavoro come elemento di un’alternativa sostenibile per salvare la propria terra e le Apuane, passando per tante, diverse sfumature. Compito che ci siamo assunti è portarne il più possibile verso quest’ultima coscienza ma il dato è che questa economia esiste e sta crescendo. Ed al suo interno sta crescendo un’avanguardia cosciente ed impegnata che oggi vedrete presentarsi; un’avanguardia che ha assunto il principio cardine di Salviamo le Apuane: Cambiare il mondo attorno a sé a prescindere e senza la necessità di prendere il potere: cioè senza il bisogno delegato della politica.

 

Dunque la domanda non è se esiste e se è possibile un’economia sostenibile alternativa alla cava –domanda che ha già risposta- ma, da una parte, se questa coscienza ed esperienza di avanguardia nel campo del turismo, dell’agricoltura, della pastorizia, dell’artigianato, dei servizi, del commercio e della distribuzione sarà in grado di prendere la guida del processo e, da un’altra, se riuscirà a resistere ai tentativi di ucciderla che sono in campo e che non ci nascondiamo. 

Qui, allora, la questione diventa collettiva e la domanda chiara e riguarda la natura del mercato di questa economia alternativa; una natura del mercato che è in grado anche di convertire una parte, meno cosciente, dei produttori. Non ci rivolgiamo alla Pubblica Amminsitrazione –che pur invaderemo di domande di finanziamento- ma alla comunità degli amanti delle Apuane, ai fedeli in amore verso questa terra, chiedendo una dimostrazione di amore. Oltre alla popolazione che le abita, le Apuane sono circondate da una rete di città, con cui hanno una relazione diretta: dalla Spezia a Sarzana, Carrara, Massa, Viareggio, Lucca,  Castelnuovo Garfagnana, Aulla legate anche simbolicamente da un periplo ferroviario. Esse contano alcune centinaia di migliaia di abitanti che sono il primo potenziale acquirente di una produzione crescente nella montagna, produzione di qualità, e in grado di garantire sovranità alimentare. A queste città sono legate molte altre città toscane fino a Firenze a contare altre centinaia di migliaia di abitanti. Questa mattina abbiamo sperimentato una prima consegna di patate –un prodotto che esce dalla gabbia del prodotto tipico- ad un virtuale Gruppo di Acquisto Solidale che chiameremo “Salviamo le Apuane” il cui valore aggiunto, oltre la qualità del prodotto, sarà che acquistandolo si contribuisce a salvare le Apuane. 

Dunque, come militante è l’avanguardia che annovera i produttori, i gestori turistici, ecc. apuani, così militante dovrà essere, per un tempo di almeno un triennio, l’impegno del mondo degli amanti delle Apuane, degli ambientalisti; ad essi ci si rivolge direttamente affinché adottino le Apuane come luogo dove organizzare una vacanza annuale, sia singola che di gruppo della sezione, dove acquistare dell’alimentare o dell’artigianato, dove intravvedere un fornitore. Salvare le Apuane per via economica.  Dobbiamo tuttavia rilevare come questi appelli, che da anni lanciamo, siano ancora rimasti poco ascoltati, salvo lodevoli eccezioni, Italia Nostra, il CAI, dal mondo ambientalista. Ma questo è il portato dei processi innovativi, quello di essere compresi lentamente: e, dunque, anche da qui a Firenze, lo rilanciamo alle associazioni ambientaliste.

In questo il ruolo che Salviamo le Apuane sta assumendo è quello di agenzia territoriale di sviluppo economico: essa è in grado di dare consulenza su come creare un’azienda agricola, come partecipare ad un bando, come creare una relazione per l’uso collettivo di macchinari o di forza lavoro, come gestire una proposta turistica o come progettare un sistema di fruizione turistica, come affrontare problemi complessi come – per fare un solo, difficile esempio - gestire la convivenza fra i lupi ed i pastori, come creare un marchio di qualità o un sistema di monetazione alternativa all’euro e così via, con fantasia ed inventiva. Il tutto come azione volontaria, cioè gratuita.

E con una strategia di medio periodo, nell’ambito più generale di chiusura della monocoltura del marmo; quella di provare a sfondare il fronte, a riconvertire l’economia di cava in un punto che pare un anello debole della catena degli avversari. E, dunque, oggi siamo totalmente impegnati a costruire un’economia alternativa in un punto, un luogo con l’obbiettivo di dimostrare che si può fare. Il luogo è l’area del Pizzo d’Uccello e del Solco di Equi Terme dove esistono condizioni molto favorevoli:

1. Un Comune, Casola in Lunigiana disposto a riconvertire le 3 cave esistenti in aree di attività turistica;

2. Una progettazione realizzata da Salviamo le Apuane

3. La presenza di privati che hanno già dato vita alla creazione di un birrificio, un ristorante ed un albergo diffuso nel borgo di riferimento Ugliancaldo

4. La compartecipazione del FAI, con la campagna i Luoghi del Cuore che ci impegna nella raccolta di firme; al proposito diciamo che essa scade il 30 novembre, abbiamo raccolto già 2500 ma è necessario raggiungerne il doppio per avere il finanziamento del FAI e, dunque, lanciamo un ulteriore accorato appello ad un impegno straordinario in queste due tre settimane finali alle associazioni ambientaliste.

Bene, dall’insieme di queste azioni concorrenti -chiedendo alla Regione Toscana, all’assessore Anna Marson, al Piano Paesaggistico una mano, anche finanziaria, decisiva- puntiamo a rompere le linee in un punto ed a dimostrare che si può riconvertire dalla monocoltura del marmo ad attività sostenibili; e qui è evidente lo schema suddescritto: sarà vitale che il CAI, Legambiente, Italia Nostra, il WWF, ecc. organizzino, in forma militante, visite a Ugliancaldo e al Pizzo con l’obbiettivo di consolidare quell’esperienza di avanguardia.

Dunque, si propone di superare il conflitto città/campagna attraverso un grande Patto per la salvezza delle Apuane, che veda sottoscriverlo gli Apuani come gli amici delle Apuane, in cui ogni soggetto abbia un ruolo da protagonista; un processo mai avvenuto prima e a cui stiamo lavorando con lena.

Per il riscatto della Apuane, per la ricostruzione di un’identità apuana, aperta ed inclusiva, ma che, innanzitutto crei una leva di apuani che si alzano in piedi e non si tolgono più il cappello davanti a nessuno.

Una nota del Professor Magnaghi dopo il Convegno Nazionale per le Alpi Apuane

Pubblichiamo con molto piacere questo bellissimo messaggio che ci manda il Professor Magnaghi dopo il convegno nazionale dello scorso 8 Novembre a Firenze. 

"Invio questa mia nota per ringraziare Paolo Baldeschi e i membri della giunta della Rete dei comitati per la difesa del territorio che hanno attivamente lavorato al convegno di ieri sulle "Alpi Apuane un patrimonio unico e di tutti".

In particolare per il salto di qualità che si è compiuto con questa iniziativa nel progetto che la Rete ha attivato in questi anni. Già con il lungo lavoro di elaborazione del documento "Piattaforma Toscana" del 2013, partendo dalle esperienze e dai singoli conflitti dei comitati, si era attuata una sintesi programmatica che proponeva uno scenario strategico multisettoriale integrato per il governo del territorio della Toscana, improntato al "neoambientalismo". 

Dunque dalla protesta alla proposta, fondata sui saperi e le mobilitazioni degli attori sociali del territorio.

 Questo sviluppo del lavoro della rete si concretizzava poi nelle singole iniziative: ad esempio il convegno organizzato con il Comitato No tav di Firenze dove sono state sviluppate e   articolate tecnicamente le proposte per le alternative di superficie della Tav e i progetti per il trasporto pubblico metropolitano.

Ma con il Convegno di ieri sulle Alpi Apuane si è realizzato un ulteriore e decisivo salto di qualità.

Cosa è successo? Semplicemente che gli abitanti/produttori del territorio della Apuane, i discendenti degli "apui" del Coraggio del pettirosso di Maurizio Maggiani, hanno raccontato  la lunga marcia avviata per la  riappropriazione del loro territorio,  attraverso la costruzione della nuova comunità di cura del bene comune, contro gli espropriatori /distruttori delle multinazionali del    marmo.

Una comunità integrata incentrata sulla "coscienza di luogo" e sul "lavoro ben fatto" , che cresce attivando relazioni fra nuovi agricoltori che vogliono nutrire gli abitanti della montagna e  le città a valle,  artigiani,  agriturismi,  operatori del turismo responsabile e del commercio,  agenzie di sviluppo locale,   escursionisti, speleologi, alpinisti, artisti accomunati dai saperi, l'amore e  la cura dei luoghi.

Una comunità complessa, articolata, composta da attori socieconomici e culturali che, a partire dai saperi contestuali, mettono in atto filiere integrate caratterizzate dalla auto-valorizzazione del patrimonio ambientale territoriale e paesaggistico, dal settore primario al terziario avanzato.

Il ripopolamento delle Apuane: ecco la strategia vincente per la quale possono essere utili le mobilitazioni delle associazioni ambientaliste, le regole d'uso del territorio del piano paesaggistico, i finanziamenti delle istituzioni, un parco che  funzioni e cosi via: attraverso la crescita di un soggetto di autogoverno sociale del bene comune cui riferire le azioni "esterne" di sostegno.

Questo evento, la rinascita della  comunità delle Apuane, è la possibilità concreta di una lotta vincente, anche se lunga e difficile, sia  per superare la   riduzione dei loro abitanti   a marginalità culturale, sociale e politica e del loro territorio a  terreno di conquista delle multinazionali del marmo, sia  per affrontare le contraddizioni con i piccoli comuni e frazioni in cui le attività estrattive costituiscono ancora la principale fonte di reddito. 

Dunque a chi appartengono le Apuane e il loro paesaggio? Come bene comune dell'umanità a tutti. Ma come proprietà collettiva a chi se ne prende direttamente cura, contro la loro distruzione, per ridare alle Apuane la loro centralità e la loro bellezza unica al mondo.

Il convegno di ieri ha evidenziato a tutti noi questo salto di qualità possibile nell'azione della Rete e delle altre associazioni: non più solo un confronto conflittuale fra associazioni, comitati, poteri economici  e istituzioni, ma sopratutto un attento e quotidiano lavoro per rafforzare le comunità locali allo stato nascente che si prendono cura del proprio territorio.

In questi nuovi compiti vengono forse anche in evidenza nuovi ruoli e forme della militanza sociale  post-partitica.

 

Cari saluti

Alberto Magnaghi"

Ricordiamo che il Professor Magnaghi è Presidente dell'illustre Società dei Territorialisti oltre che eminente Professore a questo link il suo CV http://www.lapei.it/public/2010/05/Curriculum-Magnaghi-2010.pdf

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